Ciao, è il saluto di Cristina

Lunedì 24 febbraio Cristina ci ha salutato tutti, grazie per averle donato momenti di speranza.

Carlo

… e la chiamano book therapy

Due lunghi mesi di assenza (giustificata...) da questo mio blog, due mesi senza riuscire a scrivere nulla, leggendo i vostri post ma senza commentarli come se non avessi più le mie opinioni e idee. Da due mesi infatti vivo una vita inaspettata anche se temuta: praticamente sempre in casa, preda di una debolezza estrema, afflitta da dolori difficili da tenere sotto controllo, impegnata in terapie necessarie ma debilitanti, cercando di non farmi trascinare in una palude di buio e di silenzio.

Ora, se ripenso a questo periodo mi rendo conto che sono stati i libri che ho letto che mi hanno aiutato a trascorrere le giornate, ad allontanarmi da me stessa (quella parte che stava davvero male), mi hanno fatto bene come se fossero stati una medicina, anche perché sono riusciti a distrarmi e a rilassarmi, facendomi pensare alle vicende dei personaggi e godendo delle espressioni e degli stili di scrittura degli autori.

Certo, ho preferito libri con un intreccio e una trama, quindi soprattutto romanzi, proprio perché avevo bisogno di storie con uno sviluppo da seguire. L’ultimo che ho letto, “I leoni di Sicilia”, è il regalo di un’amica, un libro che forse io non avrei comprato se lo avessi visto in libreria, ma che è riuscito – con le sue 430 pagine, ricche di vicende e di sentimenti umani, e soprattutto ben scritto – a sollevarmi anche l’umore: mi ha fatto viaggiare nel tempo, dal 1799 fino all’epilogo del settembre 1868, raccontando la prima parte della saga della famiglia siciliana dei Florio.

Alcuni dicono che i libri ti salvano la vita, un’affermazione che a me sembra un po’ enfatica: penso però che soprattutto i grandi romanzi sono dei giacimenti immensi in cui puoi trovare la serenità, il coraggio, l’equilibrio e i mezzi per fronteggiare una sofferenza e un dolore, “la letteratura come archivio della condizione umana”.

Addio definitivo all’immunoterapia

Altro giro, altra corsa! L’ultima TAC mi obbliga a voltare pagina nel percorso di terapia e di cura della mia neoplasia. Per quasi tre anni un farmaco immunoterapico era riuscito a fermarla, cioè a non farla espandere, poi un serio e pesante effetto collaterale (un argomento spesso sottovalutato) mi ha obbligato ad interrompere per un anno l’immunoterapia (che stava funzionando alla grande!) ed ecco che questo mio non gradito ospite, con cui devo convivere, si è sentito libero.

Infatti sanno tutti che se non viene aggredito e reso “innocuo”, cioè messo fuori gioco, è sempre pronto ad attaccare e ad espandere il suo dominio, anche oltre i confini della zona in cui aveva scelto di stabilire il suo insediamento principale. Dunque, si riprova con la strada della chemioterapia, sperando che riesca ad essere efficace soprattutto contro le nuove cellule migranti e contro un soggetto estremamente pericoloso, che incute paura provocando un’ondata di pensieri che per ora almeno non oso tradurre in parole…

Tuffarsi tra le mille pagine di un libro e non solo…

Leggere aggrappata a libri che una volta iniziati sono scritti in modo da non lasciarti più andare, poi nelle pause immergersi nella musica che amo o prendere i miei pastelli e un album da colorare.

Sono alla ricerca dei modi più piacevoli per me per trascorrere il tempo, quando non riesco a portarmi dietro il mio corpo per uscire e vivere la vita fuori di casa.
Leggo anche (di malavoglia…) i giornali, ma di tanto in tanto mi faccio irretire dalle immagini di Instagram, scelgo opere d’arte, foto di grandi fotografi, le pose dei miei ex-alunni e alunne oppure guardo le immagini delle mie bacheche su Pinterest, c’è un mondo in questo social e ognuno può scegliere dove fermarsi e che cosa guardare: i mari e gli oceani, la street art, i fari, fiori e alberi stranissimi, pittori e artisti, le vignette di Altan.

Ma ciò che mi rassicura più di ogni altro passatempo è sicuramente avere tra le mani un buon libro e poi mi faccio compagnia leggendo i blog che seguo e cercandone sempre di nuovi: racconti, informazioni, riflessioni e poesie, leggo e spesso mi accorgo che non so esprimere una parola di commento, non è una sensazione che mi piace, ma per ora va così. Vedremo se questa situazione che dura da tempo cambierà. Io lo spero davvero!
Intanto inizio il mio viaggio in “Una vita come tante”.

 

 

“Come un respiro interrotto”

Ci sono periodi della vita in cui un buon  libro ha il potere di staccarti da un corpo sofferente e di farti vivere momenti di benessere. E di questo sei grata a chi l’ha scritto!

“Come un respiro interrotto” è uno di questi libri, che mi ha colpito immediatamente non solo per il titolo poetico, ma anche perché non è il primo romanzo che leggo di Fabio Stassi, un autore che mi ha catturato con la qualità della sua scrittura, con lo stile delle parole e delle metafore mai banali, con  il suo modo di di scolpire i personaggi e di raccontare la vita, la gioia e il dolore, la solitudine e l’amicizia, il passato e il presente che si mescolano continuamente.

 

Raccontare la trama non aiuta a cogliere il valore di questo libro incantevole; a me poi è bastato iniziare a leggere l’incipit, come mi è già successo con un altro romanzo dello stesso autore, per essere immediatamente presa:
“Chi ti aveva sentita cantare diceva che davi a tutti la stessa sensazione: di mettere un piede nel vuoto. Una nota eri terra, e quella dopo spaesamento”.
Si parla di Sole, Soledad, un’artista, una bambina silenziosa, una ragazza che fa emozionare ed innamorare chiunque la incontri, una donna che ha molto vissuto e agli occhi del mondo una cantante, dalla voce magnifica.

La storia inizia negli anni Settanta e procede nel tempo attraverso i decenni, in un percorso che dura una vita e ruota intorno a lei e alla sua famiglia di migranti, tre nonni, due zii, un fratello e i genitori, ognuno con origini diverse, che si ritrovano casualmente prima a Palermo e poi tutti insieme in un quartiere di Roma, in una casa simile a “un alveare pieno di lingue”, “…un sanguemisto di parole che venivano da luoghi immaginari, Montevideo, Cartagine, l’Albania, si mischiava all’inglese storpio degli emigranti, allo spagnolo dei tanghi di Carlos Gardel, alla melodiosa inflessione portoghese. Un’Amazzonia misteriosa di suoni e nomi”.

Con lei viviamo la storia di Matteo, un ragazzo di grande talento musicale, il contrabbassista e l’amico più caro di Sole, dotato del dono raro di possedere l’orecchio assoluto. Il romanzo si apre con la sua immagine, quella di un ragazzo che insoddisfatto, stanco e deluso dal mondo che “ha troppe stonature” sta meditando il suicidio, dopo aver suonato un ultimo pezzo con suo fratello; ma sarà proprio mentre suona con il suo contrabbasso “la rivolta dei suoi vent’anni” che Sole inizia a cantare e con la sua voce unica e incredibile gli salva la vita.

La storia attraversa gli anni della lotta politica, quella di un movimento che ha infiammato e travolto un’intera generazione, i compagni e gli amici coetanei di Sole, dal periodo degli attacchi terroristici seguiti dagli anni delle comunità, quelle in cui è bandita ogni droga, anche leggera, dove Sole va a cantare accompagnata sempre da Matteo e dal suo inseparabile contrabbasso.
Ma anche questa esperienza s’interrompe, quando Sole deve occuparsi dei suoi genitori gravemente ammalati e Matteo è ormai lontano, anche se la passione per la musica li unisce al di là dello spazio e del tempo che passa.
Sono pagine tenere e poetiche, piene di amore.

Il romanzo narra quasi come un diario la storia semplice di due ragazzi, ma anche quella di un’intera generazione che per un momento ha la convinzione di poter fare qualsiasi cosa, anche quella di riuscire a cambiare il mondo con il proprio talento, la rabbia e la passione: Sole ormai donna canta anno dopo anno, accompagna e interpreta i cambiamenti sociali, quella della sua vita e quella dei tanti che ormai hanno smesso da tempo di far sentire la propria voce.

Mi sono letteralmente innamorata della prosa e del linguaggio di questo scrittore di origini arbëreshë della Sicilia, che vive a Viterbo e lavora a Roma e scrive le sue opere viaggiando in treno fra Viterbo, Orte e Roma. Mi piace il suo modo di farti entrare nelle storie che racconta, di come riesce a farti amare e sentire veri, vivi e vicini i suoi personaggi, che vorresti continuare a seguire anche quando sei purtroppo arrivata all’ultima pagina e trattieni il libro tra le mani perché non vorresti lasciarlo. Infatti ripercorro le pagine, dall’ultima alla prima, rileggendo qui e là, dove ho sottolineato o evidenziato i frammenti che mi hanno colpito, soprattutto per la cura e l’uso sapiente delle parole.

Le parole che secondo Fabio Stassi “sono la cosa più importante che abbiamo. Le parole ci salvano, come sostiene Eugenio Borgna che ha dedicato a questo tema dei libri molto belli. Ma le parole si ammalano anche: prendercene cura è il nostro compito.
(Esse) … vanno alla ricerca di un senso, di coincidenze.
Sono come le farfalle, con il loro impasto di fragilità, bellezza e solitudine. Se al linguaggio togliamo questa tensione verso il significato, consacrati alla divinità della comunicazione, come siamo, ho paura che finiremo per perdere quello che mi piace chiamare lo sguardo simbolico. Se si perde questo sguardo, cioè lo sguardo dei poeti, non sapremo più leggere il mondo e di conseguenza tutto quello che ci capita. E questo è pericoloso, perché così si lascia ad altri l’opportunità di attribuire i significati dei segni e di semplificare”.

“E se non puoi la vita che desideri…”

“Ciò che non può danzare sul bordo delle labbra / va a urlare in fondo all’anima…”.

La citazione è di Christian Bobin, un autore che ho scoperto da qualche tempo.

È esattamente ciò che da qualche tempo sta succedendo a me.
Ospito al mio interno una sofferenza che chiede di essere riconosciuta e accolta, da me soprattutto, non sopporta un’accettazione passiva, vuole essere determinante nel cambiamento ormai in atto, è una sofferenza che nasce infatti dalla mia difficoltà quotidiana di non vedermi e di non essere più come “prima”, prima del tumore, “l’ospite inatteso e sgradito che si installa in casa tua. E ruba il tuo respiro il tuo tempo la tua voglia di vivere, le passioni e anche le indolenze”, come scrive Alessio Viola nell’articolo che pubblico in basso e che mi ha colpito perché finalmente si abbatte la retorica delle “guerriere”.

“Non guerriere, solo donne”, grazie Alessio!

Come combattere infatti quando manca l’energia fisica, quando il corpo brontola borbotta e fa male ad ogni sforzo e a tratti sembra che voglia abbandonarti? Allora anche l’umore si inabissa e a me accade ogni volta che devo rinunciare ad essere presente a momenti conviviali, che speravo di vivere con gli altri e non ritrovarmi “fuori dal mondo”, sempre più spesso ad ascoltare me stessa, i movimenti della mente e le fitte del dolore che abita in me. Il dolore di lasciar andare per sempre quella che non c’è più, facendo spazio alla consapevolezza che “si può vivere una vita normale nonostante tutto”, come scrive verso la conclusione del suo bell’articolo Alessio Viola, un giornalista (che è anche uno scrittore) del Corriere del Mezzogiorno, che conosco e ammiro non solo per la sua scrittura, ma per la coerenza tra ciò che è, ciò che pensa e scrive nei suoi editoriali e articoli.

La mia ricerca oggi è provare ad organizzare in modo nuovo una “normalità” completamente diversa da quella di “prima”, accettarla per procedere oltre.

Mi viene in aiuto ciò che scrive Peter Bichsel: “E’ possibile ascoltare bene (anche il proprio corpo, aggiungo io) solo quando si tollera di non capire”. Difficile sicuramente, ma forse non impossibile, tollerare di non capire, andare avanti e riconquistare quel sorriso che faceva bene agli altri e a me, un sorriso interiore che forse non è scomparso, si è solo temporaneamente inabissato per ricomparire ogni volta che ho davanti un foglio bianco e prendo i pennelli per dipingere a colori la mia vita.
Vorrei  infatti – come scrive Alessio –  “semplicemente riuscire a regalare felicità, nonostante il fottuto ospite”…

L’articolo pubblicato il 14 giugno 2019 sul Corriere del Mezzogiorno (ediz. pugliese)

Ecco il testo dell’articolo.

“Le donne sono tutte belle. Alcune anche di più. Le riconosci se fai attenzione ai dettagli del corpo e dello sguardo. Camminano facendo attenzione al mondo intorno, guardano cercando come un riflesso per rivedersi come erano prima. Indossano parrucche o foulard o cappelli a volte allegri altre così così, ma non come quelli di prima. Sono più attente a chi sta loro accanto, la premura di madri mogli sorelle fidanzate aumenta nei loro confronti molto più di prima.
Si fanno più dolci, più serie, qualche volta più tristi. Di una tristezza che non è più come quella di prima, quando era provocata dai fatti del vivere, dal lavoro gli amori la casa lo studio i figli.

“Prima” avevano la mente ingombra di problemi ma libera da “ospiti” che poi si sono installati nel loro corpo e hanno stabilito il loro quartier generale nella loro mente. Il tumore è così, l’ospite inatteso e sgradito che si installa in casa tua. E ruba il tuo respiro il tuo tempo la tua voglia di vivere, le passioni e anche le indolenze. Non sei più padrone dei tuoi pensieri, che è cosa più terribile del male stesso. Ma loro, le donne, si riflettono nello sguardo di chi le circonda e non si lasciano travolgere dal dolore. Cedono ogni tanto, certo. Ma un uomo colpito da un tumore sente come se tutto il mondo ormai fosse privo di senso, perché orbo della sua grande presenza. Il re deposto dai giacobini.

Le donne palpitano e si preoccupano per tutti, vorrebbero semplicemente riuscire a regalare felicità, nonostante il fottuto ospite. Niente di più lontano dalla retorica delle “guerriere”. Non combattono, non accettano un terreno che prevede comunque uno sconfitto, in una guerra è così. Si ostinano a cercare le normalità del vivere, fanno come i giapponesi che costruiscono case di carta contro il terremoto. Le case di carta delle donne si chiamano consapevolezza, solidarietà, sorellanza. E anche allegria voglia di vivere di ostinarsi a “fare la lavatrice” per le montagne di roba sporca degli uomini di casa. Di preparare parmigiane bollentissime in piena estate.  E sorridere, ogni volta che è possibile.

Il sorriso delle donne con il tumore potrebbero raccontarlo solo i grandi pittori rinascimentali, la vena malinconica gli occhi che brillano di leggero, quel velo umido che non si lacera, quella promessa di esserci sempre. Non guerriere, solo donne. Che scoprono e si incontrano con la normalità del mondo di chi le cura. E neanche lì ci sono medici “eroi” o taumaturghi ma solo normali uomini di scienza che fanno il loro lavoro al massimo delle loro possibilità. E certo sì, non tutti e non sempre, come dappertutto. E c’è anche il primarione che si fa pagare, come no, e chi pratica terapie inutili, non è un paradiso, è la sanità di un paese che viene mandata avanti da gente straordinariamente normale nonostante tutto. E gli infermieri, e gli amministrativi sono ragazze e ragazzi fantastici, che si prendono cura delle persone prima ancora del malato. E allora le donne trovano la forza di organizzarsi, di creare legami, quello che sanno fare meglio.

La locandina dell’evento a cui avrei voluto partecipare.

E le associazioni crescono, si ritrovano e partecipano ad una giornata come “OPEN VITA, l’arte di vivere oltre il cancro”, organizzata dall’istituto tumori Giovanni Paolo II che oggi in Ateneo, nel salone degli affreschi, per tutto il giorno racconterà questa normalità. Tante associazioni, da quelle storiche alle più giovani come Walce Puglia, unite oltre le sigle su un programma semplice: organizzare la normalità della vita di chi è malata di cancro. Una parola che incomincia a non far più paura alle donne, hanno imparato che si può batterlo, fermarlo, rallentarlo. Che si può vivere una vita normale nonostante tutto.
Dal servizio di psiconcologia alle iniziative del centro antifumo, ai workshop sulla cura della bellezza alle parrucche alla moda, dall’abbigliamento alla gastronomia e a un concerto dal vivo di medici e amministratori, a tutto il quotidiano: una giornata che aperta a tutti dovrebbe riportare fra le cose del vivere la malattia, che si può controllare e sconfiggere. Una festa, perché no.

Niente è più bello di un sorriso di donna. Oggi è una festa del sorriso e della bellezza, della voglia di vivere e di essere felici. Chiedere quello che sembrava impossibile oggi è un esercizio di realismo. Di cui tutti dobbiamo essere grati alle nostre bellissime donne.

 

Finalmente sono ritornata a cinema!

Amo il cinema e mi piace andarci,  uscire da casa e immergermi nel buio della sala per entrare nella storia. Finalmente dopo tanti mesi di arresti domiciliari (per motivi di salute, non fraintendetemi…), ho rotto il ghiaccio! Una rapida occhiata alla programmazione che da tempo non guardavo quasi più ed ecco un film che desidero vedere: è Il grande spirito, di Sergio Rubini, che qui recita anche come co-protagonista con Rocco Papaleo.
Si tratta di un racconto un po’ neorealista un po’ magico, a tratti è anche una commedia, una specie di western urbano surreale, ambientato nella periferia di Taranto, tra gli stretti vicoli che portano al mare.

Sergio Rubini – Tonino, il Barboncino – Immagine tratta dal film

La trama è piuttosto semplice: un ladruncolo fallito e piuttosto malconcio,  Tonino, detto “Il Barboncino”, mentre partecipa ad una rapina, relegato dai suoi complici a fare il palo per un vecchio errore, approfitta della loro distrazione per rubare l’intero bottino e fuggire affannosamente sui tetti.
Lo vediamo scappare salendo e sgusciando sui grigi tetti della città, su su fino a ritrovarsi su un terrazzo dove improvvisamente gli appare un uomo, che dice di essere “Cervo Nero”: ha una bandana rossa sulla fronte e una piuma d’uccello dietro l’orecchio. Lui infatti si ritiene un indiano Sioux in lotta contro i bianchi, gli “yankee” dice lui, uno che sogna ad occhi aperti di andarsene lontano, in Canada, dove un tempo c’erano i bisonti che ora non ci sono più…

Rocco Papaleo – Cervo nero – Immagine tratta dal film

Lo stralunato personaggio è Renato, che vive da solo in un abbaino fatiscente, un lavatoio arredato come un appartamento, un povero matto, anzi un “minorato” come lo chiama con disprezzo Tonino, che però si rivelerà presto la sua ancora di salvezza, poiché nella fuga si è ferito ad una gamba, cadendo dall’alto di un cantiere. I due reietti, costretti a convivere e ad aiutarsi, diventano pian piano l’uno l’uomo del destino dell’altro, scoprendo un’intesa e affinità impensate tra loro e alla fine diventando quasi amici.

Tonino è Sergio Rubini, protagonista e regista di questa favola, con un grande Rocco Papaleo, un credibile Cervo Nero, che alterna momenti ieratici di contemplazione a scene in cui lo vediamo muoversi su e giù attraverso i piani del condominio come un folletto: scende e poi risale, si arrampica fino al “suo” terrazzo, dove finalmente trova un po’ di pace guardando il cielo e l’orizzonte, in compagnia di un gabbiano e delle nuvole.

La macchina da presa indugia sui miseri particolari della quotidianità, va a frugare negli angoli più bui  e nascosti, ci porta in giro a scoprire i quartieri di Taranto, spazia da un tetto ad una terrazza, ci presenta una città verticale dove si svolge quasi tutta la parabola di Tonino e Renato, mentre sullo sfondo quasi sempre scuro il paesaggio appare dominato dai fumi emessi dalle ciminiere dell’Illva, la fabbrica che diffonde nell’aria i suoi veleni minacciosi: vediamo immagini fortemente simboliche mescolate alle fiamme di un fuoco “sacro” acceso da Cervo Nero.

Solo sui tetti i due si sentono al sicuro, soprattutto Tonino, l’infame, con i complici sempre alle calcagna che gli danno la caccia senza tregua, per riprendersi il denaro rubato e ucciderlo, ma anche Renato che gli salverà la vita, scoccando una freccia che colpirà alle spalle uno dei criminali inseguitori, che era riuscito finalmente a trovarlo.

TARANTO e i fumi della fabbrica – Immagini del film

L’incontro e l’umanità di questi due uomini soli, feriti dentro e fuori, mi ha coinvolto fin dall’inizio, mentre ascoltavo sorridendo il dialetto di Tonino, poi via via presa da una leggera vena di malinconia fino a momenti di una commozione intensa e a tratti amara, tra scene in altezza da cui si assiste alle incursioni della malavita laggiù, tra le strade della città, terra di conquista per bande in lotta tra di loro. Un film in cui si mescolano poesia, follia, il genio e la tenerezza, in bilico tra sogno e realtà, dalla parte degli ultimi, di questi due perdenti protagonisti di un cammino che tra rabbia e speranza va dal basso verso l’alto, accompagnato dalla bellezza della colonna sonora, le splendide musiche di Ludovico Einaudi.

Nota a margine:
Parlavo del film con Silvia, una mia carissima amica (ed anche ex-alunna). Aveva appena dedicato alla città queste sue impressioni, che mi fa piacere riportare qui. 

Le luci di Taranto

di Silvia Rizzello

La luce di Taranto
è così sfrontata e bella
che acceca nel suo buio,
in quel dolore
complessivo e personale di molti
che straripa gli argini
del mar Piccolo
e si getta
nell’immensità del Grande.

La luce di Taranto
è il brusio del Fadini,
della frutta fresca e colorata
che non contempla
i veleni dell’Illva,
eppure sono lì in cassetta…

La luce di Taranto
che tanto acceca
sino a sera
è i circoli e la Raffo
la sua gente girare
i buoni cornetti
e tutto il gustare,

i nuovi turisti
con l’arrivo delle crociere
e il tempo che fu
oggi scortese.

Ma la luce di Taranto
ora propone un’altra Storia
conforta tutto il dolore
che non ha più candore.
E ad ogni passo
che a qualcuno lo avvicina
c’è chi indietreggia
spostandosi di lato,
andando sul ponte
e correndo verso
un più promettente orizzonte.

Mercoledì 22 maggio 2019

Momenti di non trascurabile felicità

Finalmente! È difficile oggi riuscire ad esprimere la gioia e la commozione che mi prende nel momento in cui mi accorgo di sentirmi un po’ meglio, dopo mesi e mesi di astenia profonda, di difficoltà di ogni genere e soprattutto di noiose giornate tutte uguali in casa, ferma su una poltrona, cercando di schivare pensieri negativi e talvolta catastrofici.

Il diagramma comincia a salire verso l’alto, sento ritornare un po’ di energia fisica e anche l’umore cambia e si adegua.

Oggi, finalmente immersa nel verde, godo della luce, dell’aria primaverile e del silenzio che mi avvolge.

Osservo con uno stupore nuovo il verde tenero delle foglie e l’intensità del colore di alcuni fiori, la roverella che è diventata altissima, l’imponente arbusto della canfora con i suoi rami che scendono leggeri, il melograno con le prime gemme rosa e il bellissimo colore rosso-violaceo del prunus, che contrasta con il verde e l’azzurro del cielo di oggi!

Tra i mattoncini della siepe sbuca con forza la pianta del cappero che ogni estate ci rallegra con la sua fioritura.

A momenti mi gira la testa, mi sento come se stessi su una giostra che gira e mi lascio andare finalmente al piacere di essere all’aperto.
Non m’importa il fatto che non posso espormi al sole, sto benissimo anche all’ombra. L’importante ora per me è che la terapia in corso sia efficace (come sembra) in modo da riprendere al più presto quella più importante contro la neoplasia.

Riesco a dire che mi sento felice! Almeno ora…

Per distrarre la mente

Quando mi accorgo che la mente diventa pericolosamente irrequieta, i pensieri iniziano ad affollarsi e si accavallano disordinati e invadenti, mi fermo e cerco una via di uscita. Provo ad aprire il libro che sto leggendo ma spesso le frasi, le parole e i personaggi rimangono lì sulla carta; forse ascoltare un po’ di musica mi farebbe bene, ma rimango ferma quasi catatonica ad aspettare. Non so nemmeno io cosa.

Ciò che sto pensando non mi piace, mi fa male e penso a come liberarmene. Allora, decido (saggiamente) di aprire un album da colorare, lo sfoglio alla ricerca del disegno che mi attrae maggiormente, guardo i pastelli, uno ad uno, ne scelgo qualcuno e inizio a riempire quegli spazi bianchi con un’attenzione e una precisione da certosina.

Vado avanti così, faccio trascorrere lentamente il tempo e intanto i colori mi attraggono, mi aiutano a non pensare, mi concentro sul lavoro con un impegno degno di miglior causa.

Intanto però mi accorgo che sono riuscita a distrarre il cervello, questo organo potente che vuole fare di testa sua, cavalcando praterie spesso piene di ostacoli e di difficoltà. Mi sento più tranquilla ora, guardo i colori, provo a sfumarli e lentamente la nebbia interiore si è un po’ diradata. Anche quei pensieri aggrovigliati come in una rete che mi ingabbiava si sono sciolti.
Colorare mi fa bene e quando serve è una terapia che funziona.
Con ottimi effetti collaterali!

Manduria: la morte annunciata di un uomo abbandonato da tutti

Lunedì 29 aprile 2019
Oggi si è celebrato il funerale di un uomo crocifisso
, morto una settimana fa dopo 18 giorni di agonia nell’ospedale di Manduria, una cittadina di 30 mila abitanti in provincia di Taranto, un’amministrazione sciolta per mafia e attualmente commissariata, uno dei centri più ricchi della Puglia per depositi bancari e conosciuta anche per il suo vino primitivo. Una cittadina piena di turisti ora che è primavera, persone amanti di un territorio che regala tanta bellezza.

Qui, in questo lembo d’Italia, un uomo di 66 anni, ex-operaio dell’Arsenale di Taranto, Antonio Stano, “lu pacciu (il pazzo) del Villaggio del Fanciullo” com’era stato etichettato, può morire dopo aver subito per anni violenze psicologiche e fisiche, insulti vessazioni e soprusi, aggressioni subite anche in pubblico, pietre che lo avevano colpito al capo (intervenne il 118!), incursioni ripetute in casa sua da parte di bande numerose di bulli quasi tutti minorenni, che si sono divertiti diffondendo tra di loro i video delle loro sevizie, oggi al vaglio degli inquirenti.

Conoscevano tutti questo pover’uomo, che viveva in un tugurio, dove gli mancava persino il letto, immerso nel degrado che nasce dall’abbandono prolungato e dalla solitudine estrema: una persona che non esisteva per nessuno, nemmeno per i Servizi sociali, né per il Centro di Salute mentale, la cui sede si trova quasi di fronte alla casa non certo isolata, in cui viveva la vittima.
Com’è possibile? Si sa che nei paesi il controllo sociale funziona ancora abbastanza bene, eppure questi ragazzi hanno vigliaccamente agito indisturbati – senza che nessuno li fermasse – mentre infierivano contro un uomo totalmente indifeso.

“Quando la situazione degenerava si chiamavano le forze dell’ordine ma non succedeva mai nulla” dichiara uno dei vicini, che più volte avevano segnalato la situazione; ma agli atti della polizia risulta un’unica denuncia, datata 3 aprile, che troppo tardi ha spinto le forze dell’ordine (sic!) ad agire, bussando ripetutamente alla porta del povero pensionato, ridotto ormai in fin di vita.

Il vescovo di Oria dice che aveva segnalato più volte ai genitori ciò che stava accadendo, senza ricevere risposte; anche il parroco della chiesa di don Bosco, che abitava a un passo da casa Stano, chiama in causa tutti, nessuno escluso! Dov’erano le famiglie (per bene) di questi ragazzi, la scuola che frequentano, i loro compagni e gli amici che sicuramente sapevano e che hanno taciuto, la cosiddetta “comunità” cittadina: emerge un quadro desolante che mi lascia smarrita e piena di interrogativi.

A che serve il benessere economico, quando mancano tutti gli altri ingredienti per formare una comunità di cittadini uniti, solidali e consapevoli? Il cinema è fallito, nessuno spazio di aggregazione, il campo dell’oratorio è occupato da lavori in corso, rimane soltanto la strada che si trasforma per alcuni in una giungla…

Eppure sono tempi in cui si sprecano le parole che invocano sicurezza sociale, si addita nel migrante il nemico esterno che ci minaccia e poi un intero paese scopre di essere vulnerabile e permeabile non solo dalla mafia, ma da una disumanizzazione che avanza inesorabilmente, un nemico interno molto più subdolo e difficile da sconfiggere, soprattutto in mancanza di un orizzonte diverso, da costruire collettivamente tra le generazioni.

Quanti genitori, anche giovani, sembrano smarriti e non riescono a penetrare nel mondo – reale e virtuale insieme – dei loro figli, che sembrano vivere vite parallele: “Io non sono la mamma di un mostro – dice una signora che non si sottrae ad un’intervista – ma non siamo riusciti a indicare la linea di confine tra il bene e il male”. E continua dicendo che il figlio “è uno sportivo, non si droga, non ha mai avuto più soldi in tasca del dovuto”.

Penso anch’io che questi ragazzini non siano dei mostri, è “la banalità del male” che mi si para davanti agli occhi, quella terribile forma di individualismo che chiude ognuno nel cerchio di un destino già scritto, un paese dove regna sovrana l’indifferenza e dove è morta la solidarietà verso gli esclusi e i marginali, quelli che come Donato Stano il pazzo, non hanno più voce, sono fantasmi invisibili a tutti, anche a chi aveva il dovere e la responsabilità di vedere.
Solo per il funerale si scopre anche che c’era una famiglia… e per sabato la città sta organizzando anche una (inutile per me...) fiaccolata. Che tristezza per ciò che stiamo diventando!

Dobbiamo avere la forza  di rivendicare il diritto di tutti alla propria umanità, rifiutando il principio che “chi non ha nulla non è nessuno”,
come scrive  il sindacalista nero Aboubakar Soumahoro nel suo libro appena pubblicato “Umanità in rivolta”.